Mi sono posta spesso il dilemma: come riuscire a conciliare la paura a doversi mettere in posa con un risultato fotografico all’altezza delle aspettative? Ma andiamo con ordine.
Che cosa vuol dire posare?
Mettersi in posa probabilmente come prima associazione fa pensare alle modelle e a quelle (appunto) pose che sinceramente lasciano il tempo che trovano, soprattutto se fatte senza un criterio. Ma il bravo fotografo sa che posare non è solo posizionare braccia, collo, spalle e ogni singolo cm di pelle della modella che ha davanti.
Per come la vedo io posare è anche dare delle indicazioni sul cosa fare sul set e davanti all’obiettivo.
Starà a me (fotografa) capire dove come e quando scattare, dopo aver studiato la luce e l’inquadratura che ho davanti.
Questo mi porta quindi a fare un’altra deduzione. Il reportage, sempre a mio modo di vedere, si colloca all’estremo opposto di questa ipotetica “scala” di intervento del fotografo sulla scena. In parole povere nel reportage l’intervento del fotografo è pari a zero. Si, è vero, la famosa osservazione partecipante vuole che comunque già solo la sua presenza alteri una scena, ma è ben diverso dal posizionare un soggetto in un punto specifico piuttosto che togliere degli oggetti dalla scena.
Vengo al punto: saper dirigere i soggetti in un set, che sia una famiglia al mare, piuttosto che una futura mamma in studio, piuttosto che un professionista nel suo luogo di lavoro, fa parte delle abilità che deve avere il fotografo. Diffidate di chi vi dice che non vi metterà in posa (a meno che non stiate facendo un servizio di fotografia documentaria o reportage).
Basta pensare un attimo a questo.
Siete una futura mamma e avete deciso di fare uno shooting in esterna. Andate in un bosco (e a questo punto credo che i vestiti neanche li abbiate concordati perché se il servizio deve essere naturale io fotografo ti posso dare delle indicazioni, ma decidi poi tu cosa mettere).
Ok, arrivati nella location (si ma in quale punto del bosco? chi lo decide? mistero) il fotografo non vi mette in posa, quindi non vi da neanche indicazioni su come mettere le mani, le gambe, dove guardare e cosa fare. A questo punto voi cosa fate? Molto probabilmente sareste in totale imbarazzo.
Per me posare significa partecipare attivamente alla costruzione di una immagine accurata e studiata in precedenza. Ci sono ovviamente diversi livelli di intervento diretto del fotografo sulla scena e sul soggetto, e per questo si parla di fotografia in studio, lifestyle e documentaria/reportage (nell’ordine dal più al meno costruito).
Dall’esempio sopra si capisce come le cose cambiano anche solo semplicemente in base alla scelta del vestito, della location e delle indicazioni su cosa fare e come mettersi davanti alla macchina fotografica. Che non si traduce per forza nel dovervi immobilizzare come mummie, al contrario! Darvi indicazioni su cosa fare rende viva l’immagine mantenendo la vostra impronta.
Ho semplificato abbastanza, ma spero sia passato il concetto che esistono diversi modi di raccontare la stessa storia, nel nostro caso la storia della vostra famiglia! Potete decidere di fare un servizio di ritratto in studio per avere dei ritratti “da copertina” oppure potete decidere di raccontare la vostra storia in maniera più naturale, negli spazi di casa vostra, oppure in una location esterna che concorderemo insieme, oppure in studio.
Cancelliamo la paura della parola “posa” intesa come “kate moss negli anni 2000” oppure “naomi campbell qualche anno prima”, perché vi assicuro che fa del bene alla resa finale delle immagini! Questo a meno che non si parli di reportage, è ovvio. Ma quella è un’altra storia.
nota a margine: questa riflessione nasce sulla scia dell’abuso della parola “reportage”, non tanto per la salvaguardia della parola “posare”.

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